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Tuesday, 10 March 2015

Recensione: "Le ceneri di Angela", di Frank McCourt (1996)

 
 


Frank è il bambino che mi porto dentro, il retaggio di un’infanzia trascorsa nell’indigenza, mediata dalla figura di mio padre. Una piccola persona che impara a difendersi dalle avversità, dalla fame, dalle botte, dalle malattie, dai lutti familiari, dall’ostilità generale utilizzando soprattutto le risorse del proprio intelletto e un insolito senso dell’umorismo, non certo la forza o la prestanza fisica. Un minuscolo David, gracile e affamato, alle prese con una società-Golia misera e incattivita, sotto il tallone della Chiesa di Roma, che incoraggia le famiglie, soprattutto le più miserabili, a figliare senza sosta, col risultato che circa la metà della prole muore nella prima infanzia.
 
 
Madri denutrite, spesso malmenate, che attendevano la paga settimanale del marito per riuscire a comprare due o tre cose da dare da mangiare ai figli; mariti etilisti, spesso disoccupati, che aspettavano solo di ricevere la misera paga per andare a bersela tutta al pub; neonati morti in culla senza causa apparente, altri che soccombevano a varie epidemie influenzali, al freddo, ai parassiti, alla tisi.
Attraverso questo inferno sociale irlandese tra le due Guerre, il piccolo Frank si destreggia a sopravvivere, anzi si crea un proprio mondo immaginifico senza però mai perdere di vista la dura realtà e le sue responsabilità di “capofamiglia” in miniatura. Appena può, di riffa o di raffa, si procura del cibo da dividere con la mamma e i fratellini.
 
Le esperienze scolastiche presentano un girone dantesco di maestri sadici e maneschi, disinteressati all’insegnamento, appagati solo dal fatto di essere giudicati generosi quando regalano a uno degli scolari la buccia della mela che si mangiano con evidente soddisfazione davanti alla classe che li guarda sbavando. Frank lascia la scuola a tredici anni per guadagnare il sostentamento della sua famiglia.
Però Frank ama leggere e legge tutto quello che può, senza discriminazioni, per nutrire la sua mente famelica quanto il suo corpo. Quasi soccombe al tifo e in ospedale “incontra” una ragazzina con la difterite di là dalla parete, anche lei appassionata lettrice, ma vengono crudelmente separati dalla suora che li ha sorpresi comunicarsi a vicenda versi poetici attraverso la parete.
 
 
La figura paterna è profondamente presente. Da sempre considerato un “outsider” (irlandese del Nord in un ambiente del Sud, membro scomunicato dell’IRA nella bigottissima Limerick, padre inesistente, ma che pretende dai propri figli di giurare che moriranno per l’Irlanda), è anche uomo che ama la musica e la poesia, che non alza mai la voce né le mani e dimostra per l’unica figlia neonata un affetto che lascia tutti sbigottiti. Frank impara da lui che l’apparenza è più importante della sostanza: incongruamente, infatti, il padre si agghinda come per andare a un matrimonio tutte le volte – poche – che trova lavoro come manovale. Per il figlio è la quintessenza della dignità alcolizzata. Lo trova biasimevole e ammirevole allo stesso tempo.
Per la madre prova un affetto profondo, sente di doverla difendere anche quando toccherebbe a lei proteggerlo. La vede come vittima di una società inesplicabile e, a differenza del padre, priva di senso del decoro, che non si vergogna di andare a elemosinare cibo e altre prime necessità a varie associazioni benefiche, capace di abbassarsi ad azioni indegne pur di sfamare, se possibile, i suoi bambini. Per amore. Frank comprende, ma non perdona.
I fratellini sono i suoi compagni di gioco ma anche la sua responsabilità. Si prodiga per loro, cambia le loro sozze fasce quando la madre è incapacitata, ha con loro un rapporto giocoso e maturo, da piccolo papà.
Il resto della famiglia estesa è caratterizzato da individui abbruttiti dalla miseria e insensibili alle esigenze dei piccoli. Tutti profondamente cattolici e ipocriti, non praticano l’amore per il prossimo, ma hanno il culto delle apparenze. Ci sono un paio di eccezioni ma Frank non può contare sul sostegno di nessuno di loro.
La vita per Frank è una corsa a ostacoli, ma il suo buonumore è inesauribile così come il suo desiderio di imparare e di essere di sostegno alla madre e ai fratelli. E’ un vincitore e dimostrerà come.
Frank McCourt è ormai considerato uno dei maggiori autori irlandesi. Scomparso da poco, è venerato sia nella sua patria d’origine, sia in quella di adozione, gli Stati Uniti, dove nacque nel 1930 e morì nel 2009. Tipico esempio dell’uomo rinascimentale autodidatta, è stato insegnante a New York, dove si è laureato e insegnato in diverse scuole anche molto prestigiose. Ha scritto tre romanzi autobiografici – Le ceneri di Angela (1996 – Premio Pulitzer 1997), Che paese, l’America (1999) e Ehi, prof! (2005) che gli hanno dato risonanza internazionale.
Un film diretto da Alan Parker basato su Le ceneri di Angela è stato girato nel 1999.
                   “Io penso che mio padre sia come la santa Trinità e abbia dentro di sé tre persone: quella della mattina con il giornale, quella della sera con le storie e le preghiere e quella che la combina grossa, torna a casa con la puzza di whiskey e vuole che moriamo per l'Irlanda.” (Frank Mc Court, 1930-2009)
 
©DaniBlue
10 marzo 2015

2 comments:

sara nathan said...

ciao Dani, leggo che sei tornata in pista, rieccoti fra noi.

Commento interessante e articolato il tuo, eppure malgrado le tue parole e il Pulitzer non credo che leggerò questo libro, non ne posso più di storie di dolore, miseria e botte, mi basta la Storia con la R maiuscola, non me la sento di aggiungerci anche i romanzi seppur veritieri. un abbraccio da sara

Unknown said...

Grazie delle tue parole, Sara.
Certamente ognuno ha i propri gusti anche in letteratura. Io ho trovato questo romanzo delizioso, pieno di tenerezza; poi, come dicevo in principio, la storia di Frank è sovrapponibile a quella di mio papà. L'Irlanda degli anni trenta è gemella del Polesine degli anni venti - stessa miseria, stessa dipendenza dalla chiesa di Roma, stessa propensità alle famiglie in sovrannumero, stesso problema di alcoolismo. Questo forse mi attrae nella narrazione, perché tutto è così vero, così déjà-vu. Per me è un'emozione profonda. Poi c'è anche lo stile di scrittura, un'accattivante miscela di linguaggio infantile e di poesia celtica...
Mi spiegheresti la Storia con la R maiuscola, per favore?
Ciao e grazie.