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Thursday, 30 January 2014

Artscape Nordland

 



Anni fa, mi è stato regalato un libro d’arte che mi ha immediatamente sedotto. Si tratta di Artscape Nordland, la compilazione di un progetto che comprende 33 opere scultoree inserite nel paesaggio della regione centrale del Nordland, in Norvegia (per intenderci, la parte mediana del “manico” del ”cucchiaio”). Un qualcosa di raro, se non unico, dove arte e natura si fondono, si complementano e, a volte, contrastano.
 
 
 
 
l progetto parte quando già da tempo si era accesa la discussione di arte versus natura. I nordici, sempre attenti all’ambiente e alla sua protezione, sono però anche innamorati dell’arte, particolarmente della scultura, come testimonia la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, magnifica e ricchissima collezione di sculture dall’antichità fino al XX secolo.




 
 
 
 
 
 
Skulpturlandskap Nordland nasce alla fine degli anni ottanta, quando 33 municipalità della regione si accordano per commissionare lavori ad altrettanti artisti di diciotto Paesi da inserire nelle diverse zone, con l’idea di creare un museo a cielo aperto di 40 mila km². Si era partiti da un dibattito sul ruolo dell’arte nella società. I 200 mila abitanti del Nordland non avevano nessun museo o galleria locale, sicché gli interessati dovevano fare lunghi viaggi per vedere l’arte da vicino. L’inizio del progetto data 1992 e la fine 1998. Il libro riproduce tutte le opere accennando solo al loro contesto. Questa infatuazione mi riempie di curiosità e desiderio di vedere e toccare le sculture.



Approfitto di un’estate particolarmente calda e mi involo verso Nord, dopo avere organizzato visite ad amici a Oslo e uno scambio di case a Sandnessjøen, comprensivo di traversata in nave postale Hurtigruten fino alle isole Lofoten, dove sono inseriti molti dei lavori.

 
 
Arriviamo a Oslo, poi prendiamo un volo interno fino a Trondheim, infine un altro locale fino a Sandnessjøen, capoluogo della municipalità di Alstahaug, dove si trova la prima opera che vedremo, della norvegese Sissel Tolaas, intitolata “Vindenes Hus” (casa dei venti).

 
Questa è una costruzione cilindrica di cemento ed ha numerose aperture circolari di diverso diametro con inserite eliche che il vento fa ruotare. Ogni elica è operata da un vento diverso e il nome di ciascuno è scritto in corrispondenza del foro. Una specie di laboratorio anemometrico.

 
 
 
Sandnessjøen non è particolarmente affascinante, ma è inserita in un contesto meraviglioso, con alle spalle la catena delle Syv Søstre (sette sorelle), sette vette in fila, tutte intorno ai 1000 metri, su una delle quali ci siamo arrampicati per godere di una vista da togliere il fiato. Il canale marino, il fiordo e i laghi glaciali costellano il paesaggio come pietre preziose. La mano dell’uomo è stata piuttosto reticente a cambiare i connotati del luogo.
 
 
 Una grande opera però è stata costruita: si tratta del grande ponte strallato di Helgeland, che attraversa lo stretto di Leirfjord con lieve grazia. Un’opera di ingegneria che non deturpa il paesaggio né tutte le sfumature di blu della sua tavolozza. Anche la tecnologia può essere sublime.

 


 
Al di là del ponte inizia la municipalità di Leirfjord, dove è stata inserita un’altra opera del progetto artistico. Si tratta di “Around” del brasiliano Waltercio Caldas, che ha realizzato un parallelepipedo con profilati di acciaio appoggiato su una piattaforma rocciosa elevata dominante il braccio di mare. La particolarità consiste nella posizione relativa dell’osservatore. Il metallo è verniciato in un blu violaceo, che secondo l’autore è il colore dell’ambiente.

 
 Non riuscirò a vedere tutte le opere del progetto, comunque ce ne sono almeno due che non voglio assolutamente perdere.
 

 
Ci imbarchiamo molto presto di mattina sulla nave dell’Hurtigruten (servizio postale) Midnatsol (sole di mezzanotte), per attraversare il canale tra la costa e le isole Lofoten. La traversata resterà impressa nella mia memoria come una delle esperienze più indimenticabili. Il mare, il profilo lontano delle isole e un sole dolce e persistente che percorre un lento arco nel cielo azzurro in queste giornate interminabili ed eccezionalmente tiepide, intorno al Circolo Polare. La traversata dura circa dodici ore, con una sosta a Bodø per una visita al capoluogo del Nordland.
Bodø è una cittadina poco interessante, a mio avviso. La scultura che ospita è dell’inglese Tony Cragg, “Untitled”. Non dice molto alla mia sensibilità: sette massi di granito appoggiati sull’argine del porto, forati regolarmente da parte a parte. Groviera per troll.

 

 
 
 
 
 
 


Molto più entusiasmante è l’avvicinarsi del “muro delle Lofoten” nella luce iridescente dell’interminabile tramonto.  
 
 
 

  

 
 
 
 
 
 
 
 
  

Allo sbarco a Svolvær, capoluogo dell’arcipelago, rimango affascinata dalle alte intelaiature di legno usate per fare asciugare i merluzzi, che poi sono esportati in Italia e Portogallo come stoccafissi.
 
 
 
 
 
Quasi opere d’arte di per sé, costellano i moli e le passeggiate, tra le rosse rorbur, tradizionali case di pescatori su palafitte, oggi trasformate in alloggi per turisti. Non possiamo mancare l’esperienza di dormire in una di queste. Imperdibile.



 

Ancora più entusiasmante è la scultura, anche questa senza titolo, che l’americano Dan Graham ha inserito nel paesaggio di Vågan, nel comune di  Svolvær – qualcosa che trascende l’opera d’arte in sé: ha creato un evento. Infatti si tratta di una costruzione di vetro trasparente e riflettente che si trova sulla strada principale, e quindi non può sfuggire all’osservazione. A seconda delle stagioni e delle ore del giorno vi si riflettono e scompongono nella parete concava immagini sempre diverse. Un’opera pittorica, scultorea, e contemporaneamente architettonica. Soprattutto, un’idea che cattura la natura. Uno dei due lavori che ho trovato più affascinanti.

 


 L’altra opera che mi ha spinto fino a qui è “Head” dello svizzero Markus Raetz. La si trova nella municipalità di Vestvågoy, sul litorale  deserto di Eggum, un po’ fuori mano rispetto alla strada principale. Su una colonna di granito alta circa 170 cm si trova l’oggetto che ha dozzine di forme a seconda del punto di osservazione: da due posizioni si percepisce un profilo umano, ma in un caso è capovolto. 
 
 

Il terreno che circonda la scultura è un pascolo, e il panorama è monumentale, con da una parte un lago plumbeo semicircondato da aspre colline; i colori sono cangianti e basta una nuvola passeggera per creare un’altra scena. Dalla parte opposta c’è il mare, volubile come le stagioni, pieno di bellezza e di ricordi storici – siamo nella terra degli antichi Vichinghi – e la scultura è perfettamente integrata nell’ambiente, come un possibile totem.

 
 

Visto che da qui partirono navi vichinghe, nella vicina Borg c’è un museo vichingo, con una imbarcazione ricostruita e la replica di un lunghissimo edificio ligneo, la casa del capo villaggio, allestita internamente secondo come doveva essere originariamente. Attualmente viene utilizzata come ristorante e luogo di feste in costume, dove le cameriere portano acconciature ed abiti medievali, le panche sono coperte di pelli animali, vi sono candele accese e vari oggetti utilizzati intorno all’anno 1000 dagli abitanti della zona.

La tappa successiva è Stokmarkenes, cittadina portuale con una vecchia nave Hurtigruten fuori servizio visitabile. Interessante notare l’evoluzione di queste imbarcazioni nel corso degli anni. Questa è anche la località dove troviamo il prossimo dei lavori, “Days and Nights”, del turco Sarkis.



 
L’impressione che mi hanno dato queste due casette di granito, una bianca e l’altra nera, è stata cimiteriale. Mi sono sembrate due tombe di famiglia un po’ fuori luogo, sedute su una piattaforma di cemento prospiciente il fiordo. Fredde.


Proseguiamo verso nord e arriviamo a Sortland, soprannominata la “città azzurra” per il numero di case di questo colore. Si trova a nord del Circolo polare ed è uno dei luoghi più favorevoli all’osservazione delle aurore boreali. Ma solo in inverno.
 
A Sortland c’è un’altra scultura, “Ocean Eye”, dell’islandese Sigurdur Gudmundsson. La stilizzazione di una barca a vela o una barca sormontata da una casa con un foro centrale a forma di rombo. Le pareti lucide di granito riflettono l’umore cangiante del mare, del cielo e delle montagne, mentre il foro centrale è una finestra aperta e una cornice della lontananza.

 
 
 
 
 
La sosta seguente è a Fauske, per osservare un lavoro del norvegese Per Barclay, senza titolo. Il significato è molto elusivo: due lastre di granito, una bianca e una rosata, poggiano su strutture di alluminio davanti a un ricovero per barche. A seconda delle maree nel fiordo, le strutture metalliche sono visibili o no. La perplessità è il sentimento che mi accompagna sempre se guardo o penso a quest’opera.

 
 
La prossima, invece, mi piace un mondo. Si trova a Saltdal, è intitolata “Four Exposures” ed è stata realizzata dal lituano Gediminas Urbonas. Su una scarpata sono state create quattro mensole di cemento, di cui una vuota, una che contiene uno sci, una un remo e l’ultima un “nido” a forma di uovo formato da pietre tonde, bianche e regolari come uova. Bellissima.

 
 
Mo i Rana, “Havmannen”, del britannico Antony Gormley. Questa scultura è gigantesca: oltre 10 metri ed è in parte immersa nel fiordo, 15 metri dalla riva, a cui dà le spalle. La interpreto come simbolo dell’incomunicabilità tra esseri umani o del pensiero profondo che ci attanaglia. Considerando l’opus di Gormley, constatiamo che la sua ispirazione principale è la figura umana: l’uomo come individuo e come massa. Ricordiamo il suo “Field” esposto più volte alla Tate Gallery di Liverpool, con 35.000 figurine di terracotta che ricoprono tutto un salone, una mini versione dell’esercito di terracotta.

 
 
 
A Mosjøen, nella municipalità di Vefsn, ci sono “Tre Éldar” (tre fiamme) dell’islandese Hulda Hákon. Queste descrivono una saga, come le lastre iscritte lungo il sentiero mostrano, che si svolge in un bosco di betulle, in cui bruciano fuochi eterni. Le fiamme sono in acciaio  inossidabile laccato d’oro.

 Con questa opera si conclude il viaggio di scoperta di una storia d’arte ambientata nel nord e affidata alla narrazione di scultori internazionali. Tutte le altre opere del progetto devo ancora scoprirle.
  


DaniBlue
29.01.14

 

Monday, 27 January 2014

Sottosopra 4: Fine del Viaggio agli Antipodi





Dopo due piacevolissimi giorni trascorsi a Queenstown, siamo arrivati al giro di boa del nostro itinerario neozelandese nell'Isola del Sud. Abbiamo visitato la spettacolare costa occidentale di cui ci rimane un'ultima chicca, il fiordo di Milford, dopo di che risaliremo verso NE per la costa orientale, a detta dei locali molto meno sensazionale.

Ci troviamo nella punta meridionale dell'isola, oltre la quale vi è l'insidioso stretto di Foveaux che la divide da Stewart Island, la terza per grandezza, ma abitata da poche centinaia di persone. Il clima è cambiato drasticamente viaggiando verso sud, cioè avvicinandoci all'Antartide. Mentre tutta l'Isola del Nord gode di un mite clima subtropicale, nell'Isola del Sud si avverte una sensibile discesa della colonnina del mercurio più ci si avvicina al Polo.


Viaggiando verso Te Anau il tempo è in peggioramento: correnti di aria fredda e piovosa rendono il paesaggio molto simile a quello dell'Europa del Nord, la Scozia in particolare. Sebbene sia estate, è impensabile non indossare qualcosa di caldo e impermeabile. Tempo da escursionisti tosti. Arrivati al Top Ten Holiday Park, dove pernotteremo, prenotiamo subito la traversata di Milford Sound per la mattina seguente, poi ci avviamo per una camminata lungo la riva del lago Te Anau. Una brezza tesa e gelida increspa la superficie nera dell'acqua. E' possibile fare a piedi il giro del lago, per quanto vasto, ma non riusciamo a spingerci oltre la chiusa. Pochissimi altri turisti, compreso uno in bicicletta, sfidano le intemperie e il vento impietoso. Noi torniamo intirizziti e ceniamo presto.
 


L'indomani ci alziamo alle 5:30 per la traversata. Occorrono infatti per arrivare alla partenza due ore e mezza di macchina in mezzo a un bellissimo paesaggio deserto, ricco solo di vegetazione e canti di uccelli. Il battello che ci porterà in mezzo al fiordo di Milford Sound si chiama Milford Sovereign, ed è nuovo e carino. I passeggeri sono una manciata, e a tutti spetta una abbondante prima colazione.



Non ci sono parole per descrivere la maestosità di Milford Sound. Molti lo paragonano ai fiordi norvegesi; la scenografia sembra uscire da una saga nordica; le montagne a picco, tra cui la più spettacolare è Mitre Peak, emergono come coni verdi dalla superficie plumbea e si innalzano fino a 1500 metri, regalando la certezza di essere abitate da giganteschi troll e altri mostri. Milford Sound ha due cascate permanenti e un numero imprecisato di cascate temporanee dopo forti piogge. Il battello, ben protetto da una robustissima lastra di cristallo, passa direttamente sotto una di queste e ci regala un'emozione indicibile: lo scroscio dell'acqua è assordante e minaccioso.



Neanche qui mancano le colonie di foche ursine, e riusciamo a fotografarle stese su una roccia.
Il Milford Sound entra per 15 km nella terraferma dal Mar di Tasmania, alla bocca del fiordo.
 Il traghetto ci porta circa fino al centro del fiordo, dove si allarga notevolmente, poi ritorna all'attracco. La magnificenza del paesaggio attira migliaia di visitatori al giorno e fa di Milford Sound la destinazione turistica principale della Nuova Zelanda. Noi c'eravamo.






Tornando verso Te Anau, ammiriamo la catena degli aspri Monti Franklin e sostiamo davanti a meraviglie geologiche, come un ponte naturale sopra una cascata. Un simpatico kea (Nestor notabilis), una specie di pappagallo alpino, richiama la nostra attenzione. Di ritorno a Te Anau, facciamo una breve sosta pranzo e affrontiamo il lungo viaggio che ci condurrà sulla costa orientale.







I 500 chilometri percorsi sono il tragitto più lungo del nostro itinerario. Passando da ovest a est, il terreno da aspro e selvaggio divie-ne via via dolce e ondulato e il clima da minaccioso di-venta mite e gradevole. Ci fermiamo a Waikaouiti, sulla costa, un centro di allevamento di cavalli da trotto. Passiamo la notte in un motel sperduto, e la mattina facciamo una lunga passeggiata sulla spiaggia, incrociando qua e là cavalli montati e trottatori in allenamento. La brezza soffia a livello del terreno, sollevando la sabbia e creando fantasiosi effetti moiré.

 



Finalmente il tempo è in miglioramento. Ci mettiamo in marcia verso Akaroa, nella penisola di Banks, dove abbiamo prenotato una stanza all'albergo L'Hotel. sostiamo per pranzo a Oamaru, città  della scrittrice Janet Frame (1924-2004), autrice di Un angelo alla mia tavola. La cittadina ha un aspetto elegante e retrò, con begli edifici in arenaria chiara, ed è un punto di osservazione dei pinguini. Gli unici che vediamo, però, sono quelli del cartello stradale: "Rallentare: attraversamento pinguini".





La penisola di Banks è davvero spettacolare, come si vede dalla strada che la costeggia dall'alto delle falesie.



L'Hotel di Akaroa, antica colonia francese prima dell'arrivo britannico, dice di offrire sistemazioni di lusso. Meglio lasciar perdere. Speriamo che recentemente sia stato ristrutturato dalle fondamenta. La località è molto pittoresca e amata dagli artisti. Ci sono numerose barche in rada e seconde case piuttosto pretenziose. Sfortunatamente, la penisola di Banks si trova in una zona fortemente sismica, come hanno testimoniato i rovinosi terremoti del 2010 e 2011, che hanno semidistrutto Christchurch, immediatamente a nord di Banks, producendo 185 fatalità. La città non l'abbiamo visitata, ma sappiamo che la ricostruzione è iniziata rapidamente e in maniera efficace.







Penultima tappa: Kaikoura, la capitale dei cetacei. Si trova nell'angolo NE dell'isola, in una penisola nel Pacifico. Già centro di caccia alle balene, è diventata una delle mete favorite dell'ecoturismo, con numerose compagnie che offrono gite di whale watching.



Siamo qui per questo. Ci imbarchiamo e usciamo al largo fino a che in lontananza appare la silhouette di un capodoglio    sotto il pelo dell'acqua. La barca ferma i motori e la gente a bordo si prepara con le macchine fotografiche a immortalare il tuffo della balena. Dopo un bel po' di tempo, pigramente si immerge in profondità, sollevando appena un po' la coda fuori dall'acqua. Vabbè, poteva far di meglio.






Il vero divertimento arriva dopo, durante il rientro, quando una numerosa squadra di acrobatici delfini lageno-rinchi scuri ci intrattiene con esibizioni di salti fuori dall'acqua, tuffi, piroette e ci circonda emettendo suoni giocosi. Ci seguono per un po', e poi avvistiamo altri delfini, della specie cefalorinco di Hector, più piccoli e meno gregari dei primi, ma endemici della Nuova Zelanda soltanto. Sono una specie rara a rischio.




















La mattina del giorno seguente ci dirigiamo a Picton, dove facciamo un paio di foto al porto, prima di arrivare al traguardo di Blenheim, da dove eravamo partiti. Facciamo un ultimo pranzo in una cantina-ristorante, dove degustiamo gli ottimi vini neozelandesi e poi all'aeroporto.

Fine dell'avventura sottosopra. Purtroppo saremo presto di  nuovo SOPRA-SOTTO. Ma i ricordi ce li porteremo sempre con noi.

POROPOROAKI AOTEAROA!

DaniBlue, 27.01.14