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Monday, 7 October 2013

Tutti colpevoli




L'immane, catastrofica tragedia che ha colpito quasi 500 migranti africani che tentavano di allontanarsi dalla morte mi ha lasciata ammutolita. E' qualcosa che esula dalla mia immaginazione. La parte più sconcertante è la reazione della gente comune, gente come me, che prende le distanze, che rifiuta di immedesimarsi con le vittime della sciagura. Come se la cosa riguardasse solo "gli altri". Per non parlare poi dei rivoltanti commenti dei leghisti, e di buona parte - se non la maggioranza - dei lettori dei giornali, soprattutto di destra, ma non solo. Per me è incredibile che ci siano persone adulte, responsabili che esultano per la perdita di vite umane, che dicono  malvagità sui "clandestini", "invasori", "terroristi", "selvaggi", "scimmie umane". Mi hanno fatto vergognare di appartenere alla stessa specie. Ma questa è solo la mia reazione personale.



Invece, esiste un grande dilemma che ci coinvolge tutti. Quegli sciagurati cercavano di sopravvivere e per farlo hanno affrontato ostacoli impossibili. Come tanti nelle loro condizioni, confidavano nell'umanità del prossimo. Hanno dato fuoco a una coperta per attirare l'attenzione dei pescherecci vicini, il che ha poi provocato la tragedia sotto gli occhi di tutti.



Alcuni pescherecci li hanno avvistati, ma si sono allontanati senza prestare soccorso. Perché "ubbidivano alla legge". Sono colpevoli? Se si fossero accostati e avessero aiutato i naufraghi avrebbero subito le ritorsioni dello Stato: confisca del peschereccio, loro mezzo essenziale di sostentamento, salate multe e magari anche guai maggiori con la giustizia. E' una legge razzista e carente, la Bossi-Fini, come del resto quasi tutte le leggi europee che regolano l'immigrazione.




Forse qualcuno di quei disgraziati è comunque riuscito a nuotare fino a riva e, mi auguro per loro, ha trovato rifugio presso qualche isolano, che non si è preoccupato  delle conseguenze giuridiche della sua buona azione. Già, perché accogliere e aiutare clandestini senza denunciarli è un reato grave per la legge. Ecco il dilemma: se fosse capitato a me, che cosa avrei fatto? Avrei rifiutato di aiutarli? Sarei andata a denunciarli in questura?



Durante l'obbrobrio del fascismo molti hanno nascosto ebrei e altre persone con grave rischio per i loro protetti e per sé, sapendo quali rischi correvano per mano dell'infame regime. Lo sentivano come obbligo morale, molto più forte di qualsiasi conseguenza legale. Adesso lo Stato è "liberale", non ci sono torture e deportazioni nei lager nazisti, ma la gente è più liberale? Secondo me no. Io stessa non so come mi comporterei.



Ho visto recentemente il bellissimo film del 2011 di Emanuele Crialese, Terraferma. I protagonisti si sentivano fortemente tormentati e divisi sul da farsi. Non volevano rifiutare gli aiuti, ma non volevano esporsi a grossi rischi. Sapevano che cosa significava perdere i propri mezzi di sostentamento, ma si sentivano sottoposti alla più forte legge del mare, che impone di soccorrere tutti i naufraghi.




Il film è stato girato nel paradiso di Linosa, a poche miglia dalla più nota Lampedusa, tragico palcoscenico degli ultimi avvenimenti. Pare che il mare intorno al piccolo arcipelago sia tomba di oltre 20.000 naufraghi annegati negli ultimi anni, che volevano sfuggire a morte sicura nei loro paesi. Non ce l'hanno fatta, e un po' di colpa ce l'abbiamo tutti.

Le immagini sono tratte da Terraferma di Emanuele Crialese, 2011.

Thursday, 3 October 2013

Dagli stracci ai velluti

 

Iniziò tutto negli anni quaranta, durante la Seconda Guerra Mondiale. C'era una giovane la cui casa a Milano era stata bombardata dagli Alleati. Aveva perso il padre a tredici anni, lasciando lei e sua madre nella miseria. Questo significava che, benché fosse una scolara brillante, fu costretta a lasciare gli studi e andare a lavorare per sostenere se stessa e la mamma, la cui paga di domestica non era sufficiente per due persone.

Divenne apprendista sarta e ben presto eccelse nei risultati. Difatti era talmente brava che cominciò ad avere clienti in proprio, oltre a quelle della sartoria nel cui laboratorio sudava per dodici ore al giorno. La sera lavorava a casa, approfittando della luce naturale, dato che non potevano permettersi la corrente elettrica. Ciononostante il numero delle clienti private continuava a crescere, sicché le due donne cominciarono ad avere una vita meno stentata. Poi caddero le bombe, loro persero tutto quello che avevano, così abbandonarono la città e sfollarono in una zona meno esposta, in un istituto gestito da suore in Brianza.

Qui la giovane non perse tempo e presto si costituì una solida clientela, che apprezzava molto il suo talento sartoriale. Dopo qualche anno la guerra finì, quindi la giovane con la madre poterono rientrare a Milano.



La loro casa non c'era più, ma riuscirono a trovare una sistemazione alternativa, dove la madre fu assunta come portinaia. La figlia invece proseguì la sua attività e presto le sue clienti aumentarono  sensibilmente di numero e di qualità.







Era molto richiesta, e fu in quell'epoca che incontrò un giovane affascinante che aveva la sua età ed era anch'egli dipendente di una sartoria da uomo piuttosto nota.

Anche lui proveniva da un passato molto umile in campagna e aveva lasciato la scuola troppo giovane per essere indipendente. Era dunque arrivato in città al seguito dei suoi fratelli e sorelle e si era messo subito a lavorare. I due giovani si innamorarono, si sposarono e decisero di aprire una sartoria in proprio.

Misero assieme i loro sudati risparmi e pagarono una caparra enorme (per i loro mezzi) su un appartamento in centro. In quei tempi le truffe erano frequenti: furono defraudati della caparra da truffatori senza scrupoli che avevano usato lo stesso trucco con un numero di altri ingenui inquilini speranzosi.




Nonostante ciò lavorarono ancora di più, rimisero insieme un gruzzoletto, trovarono l'appartamento perfetto per aprire un laboratorio e per allevare la famiglia. Si trovava nel posto più ambito, nel cuore del distretto della moda milanese, che sarebbe diventato il fulcro dell'alta moda mondiale: Via Monte Napoleone.




Nel frattempo arrivarono i figli, quattro in tutto, ma l'azienda familiare continuò  ad andare sempre meglio, grazie al lavoro indefesso della coppia che aveva iniziato dal nulla, ma la cui tempra era d'acciaio. Lavoravano anche di notte per soddisfare le richieste delle clienti, non concedendosi quasi mai un giorno di vacanza. La vita continuava per loro come se stessero ancora combattendo per la sopravvivenza, cosa che con quattro figli non era troppo inverosimile. Non si permisero mai una tregua, non viziarono mai i figli, non fecero mai concessioni, sebbene non facessero mai mancare loro l'essenziale e trasmisero loro una fiducia incrollabile nelle proprie capacità. Dicevano: “Non possiamo darvi il lusso o la dote, possiamo darvi soltanto il nostro amore e un'istruzione per tutto il tempo che ve la meriterete; oltre a quello, potrete contare soltanto sui vostri mezzi.” (Tra parentesi, tre su quattro arrivarono a laurearsi e uno prese la maturità.) Furono genitori affettuosi con principi altissimi e inflessibili; a volte i figli non li sopportavano, ma col tempo giunsero ad apprezzare la lezione inestimabile che avevano appreso.


Avevano imparato che nella vita niente è regalato; che il denaro, il successo e i riconoscimenti li si devono meritare; che non serve adagiarsi sugli allori e sperare nella sorte. E ringraziano i genitori per l'esempio solido che hanno dato, qualcosa che è radicato dentro di loro e si augurano che i propri figli possano anche loro imparare dalla loro storia, la storia di Angelina e Adone, i miei genitori.
 

 


Wednesday, 2 October 2013

Il più grande fetente della letteratura



Ho appena finito di leggere Il Cimitero di Praga, l’ultimo romanzo di Umberto Eco, pubblicato in Italiano nel 2010 e tradotto in inglese l’anno successivo.

Strutturato come un ottocentesco romanzo d’appendice (feuilleton), è un susseguirsi di misteri e colpi di scena che tengono il lettore attanagliato per più di 500 pagine. Al centro della trama un personaggio, Simone Simonini, uno degli esseri più spregevoli mai inventati in letteratura, che parla per buona parte della storia in prima persona attraverso un diario. Vi è poi un'altra voce narrante o, meglio, scrivente, che si definisce abate Dalla Piccola, il quale si alterna con Simonini, sempre annotando sul diario di costui, e infine un Narratore neutro che serve per introdurre la trama e, qua e là, completare le lacune e accelerare il ritmo tra i capitoli. Ogni voce narrante è identificata da un carattere tipografico diverso, sicché è sempre chiaro da quale punto di vista vengono descritte le azioni.

Giuseppe Balsamo


Come sempre nei romanzi di Eco, anche qui la storia è interpretabile su molteplici livelli – come, appunto, romanzo d’appendice, ricerca storica, pastiche letterario, trattato filosofico, ricettario gastronomico e altro ancora – ma godibile anche semplicemente come “giallo” storico. Il dottissimo professor Eco ci delizia con chicche storiche frutto della sua appassionata ricerca e imbastite nel tessuto del racconto: possiamo stare tranquilli che la sostanza sia più che verificabile. Il testo, come i romanzi d’appendice ottocenteschi, è anche illustrato da diverse litografie del diciannovesimo secolo, molte delle quali di proprietà dell’autore, che sembrano essere state disegnate appositamente come  complemento del testo. Infatti, è un meticoloso intarsio compiuto dall’Autore che integra le due cose con divertita ironia.

L’antieroe Simonini è un falsario, un assassino e un agente segreto, nonché appassionato gastronomo, misogino fino alla paranoia e nemico di gesuiti, massoni e soprattutto antisemita. La sua logica appare molto fluttuante tra varie ideologie, ma sempre tesa al personale arricchimento e a un orgoglio professionale persino nelle peggiori nefandezze che compie.



 
Personaggio totalmente inventato, al contrario di tutti gli altri, il corso della storia europea viene influenzato grandemente dai suoi atti malvagi, soprattutto dalla composizione dell'infame falso dei Protocolli degli anziani di Sion, che Eco gli attribuisce e con cui Hitler diede inizio alla campagna di sterminio degli Ebrei. Lo sfondo storico copre l’intero corso della vita di Simonini, dal 1830 al 1897, sul palcoscenico di Torino, Palermo e Parigi. Bellissime le ambientazioni.



Un bel ripasso della storia, più o meno reale, per gli appassionati di Eco. Lo consiglio.
 

Ho appena visto una pellicola che non immaginavo suscitasse in me sentimenti tanto forti. Si tratta di "Parada" di Marco Pontecorvo, la storia di un artista di strada parigino che decide di andare in Romania per offrire la sua opera ai ragazzi di strada. La conoscenza diretta con loro cambierà la sua vita per sempre, ma, quello che più conta, cambierà la vita dei ragazzi in meglio.



Basata su un esperimento reale, i centri "Parada"si sono moltiplicati in poco piu' di dieci anni e contano ora piu' di 1000 iscritti, giovani tolti dalla strada che hanno imparato le arti circensi e si esibiscono in pubblico dopo aver ritrovato una propria dignita'.
Immagini forti, da cinema neorealista, con piccoli attori perfettamente convincenti, coinvolti nella propria storia, che mescola spietatezza e tenerezza in un ambiente ostile a tutti, e in particolare ai piu' deboli.


Dopo una prima parte durissima, la seconda si apre alla speranza. Reminiscente di "Si puo' fare". Coinvolgente.

 
 
 
 
Convalido l'iscrizione a Paperblog sotto lo pseudonimo di daniblue